In un recente contributo dedicato ad A2CS, PANTHER-IT e alla protezione della cosiddetta “bolla tattica”, viene proposta una visione molto avanzata dei futuri mezzi corazzati italiani. A2CS e PANTHER-IT vengono presentati come piattaforme digitali, interconnesse, ricche di sensori, jammer e sistemi hard e soft kill integrati, coordinate tramite BMS all’interno di una rete cooperativa di nodi con e senza equipaggio.
Il ragionamento di fondo appare chiaro: il campo di battaglia sta cambiando, la minaccia dei droni e dell’artiglieria di precisione tende a superare quella “classica” di IED, RPG e missili controcarro, e la protezione è chiamata a diventare multilivello – fisica, cinetica, elettronica e cibernetica – non solo sul singolo mezzo ma sull’intera bolla tattica. È un’impostazione coerente con molte lezioni operative recenti, ma che può essere affiancata da alcune considerazioni di cautela.
Più la bolla diventa sofisticata, più rischia di trasformarsi in un bersaglio privilegiato. Se il veicolo dipende in misura crescente da link, sensori distribuiti, software, aggiornamenti continui e da un BMS sempre connesso, non si può escludere che un jamming efficace, un attacco cibernetico o una pesante degradazione dello spettro elettromagnetico possano rendere l’intero sistema temporaneamente cieco, muto o rallentato. Nel testo si insiste sulla protezione della rete, ma viene forse meno evidenziato un punto decisivo: nel momento in cui la bolla si degrada o collassa, il mezzo deve comunque essere in grado di continuare a combattere. La prova reale di un sistema d’arma non è solo il funzionamento in un contesto addestrativo ideale, ma la capacità di restare operativo quando il BMS non aggiorna, il drone non arriva, i sensori sono limitati e la logistica subisce ritardi.

I programmi A2CS e PANTHER-IT vengono descritti come mezzi dotati di arma e munizionamento anti-drone per le classi 1 e 2, sensori IR passivi per operare in modalità “radarless”, sensori RF per intercettare i protocolli dei droni e jammer in grado di disturbare i collegamenti nemici, il tutto gestito dal BMS che integra hard kill e soft kill. La domanda, più che contraddittoria, è di equilibrio: è davvero necessario che ogni singolo veicolo si trasformi in una piattaforma fortemente carica di elettronica, antenne e apparati delicati, oppure sarebbe preferibile una distribuzione più graduata delle capacità?
Nel contributo si accenna al tema del costo e della sostenibilità, chiedendosi quanto possa venire a costare un mezzo di questo tipo e quanti esemplari si possano realisticamente acquisire. Da questa riflessione discende un ulteriore spunto: un sistema d’arma non è “protetto” solo perché è difficile da colpire; lo è anche, e forse soprattutto, se è difficile da mettere definitivamente fuori uso. Un veicolo che accumula capacità ma tende a guastarsi spesso, che richiede interventi di specialisti per ogni avaria e che vede ridursi rapidamente l’efficacia appena la rete si degrada, rischia di essere più vulnerabile sotto altri profili, pur risultando avanzato sul piano tecnologico.
La guerra in Ucraina viene giustamente richiamata per mostrare come droni e artiglieria guidata abbiano modificato profondamente manovra e sopravvivenza dei complessi meccanizzati. Tuttavia, se si progettano mezzi tarati quasi esclusivamente su quello scenario, esiste il rischio di trovarsi meno pronti in contesti diversi. Guardando al Medio Oriente, all’Iran e alle IDF, si è visto come non tutti gli sciami di droni funzionino allo stesso modo e come la risposta avversaria, tra guerra elettronica e superiorità aerea, possa ridurne drasticamente l’impatto. La questione diventa allora se puntare su mezzi altamente specializzati per il “campo ucraino” o su sistemi forse più essenziali, ma capaci di resistere a un ventaglio più ampio di avversità operative, ambientali e logistiche.

Nel dibattito viene posto un quesito importante: a quale livello ordinativo dovrebbe essere garantita la “full capability” della bolla tattica? Plotone, compagnia, battaglione, Task Force? In teoria, è pienamente sensato ragionare in termini di complesso tattico: non tutti i mezzi con tutto, ma l’insieme che dispone di tutte le funzioni necessarie. Nella pratica, però, il giorno in cui i veicoli “abilitanti” vengono colpiti, la Task Force si disperde o alcuni nodi chiave della rete vengono neutralizzati, a fare la differenza non è più l’eleganza del modello concettuale, ma quali mezzi continuano effettivamente a combattere e con quali capacità minime garantite.
In quest’ottica, più che moltiplicare moduli e apparati, sembra decisivo puntare su ridondanza essenziale e ruggedness. Ogni mezzo dovrebbe preservare un nucleo minimo di capacità – osservazione, comunicazione di base, fuoco autonomo – che non dipenda dalla perfetta salute della rete. I sistemi installati dovrebbero essere quanto più possibile resistenti a urti, temperature estreme, sporco, schegge; e al tempo stesso facili da riparare e sostituire sul campo da personale non iper-specializzato. La priorità, accanto all’interconnessione, è la capacità di resistere fisicamente e funzionalmente alle avversità tipiche del campo di battaglia.
In definitiva, non si tratta di mettere in contrapposizione tecnologia di rete e robustezza “tradizionale”, ma di ricercare un equilibrio realistico. Non basta proteggere mezzo e bolla; sarebbe auspicabile orientarsi verso sistemi d’arma che continuino a muoversi, vedere, comunicare e impiegare il fuoco anche quando tutto intorno si degrada. La tecnologia e la rete sono potenti moltiplicatori di forza solo se poggiano su piattaforme robuste, relativamente semplici da mantenere e difficili da mettere definitivamente fuori combattimento. La domanda per programmi come A2CS e PANTHER-IT non è quindi soltanto quante capacità di protezione possano integrare, ma in che misura ciascuno di questi mezzi saprà resistere alle avversità reali – fisiche, elettroniche e logistiche – dei futuri campi di battaglia.






