C’è un video del 2017 che molti hanno liquidato come fantascienza distopica: minuscoli droni autonomi, grandi quanto il palmo di una mano, dotati di riconoscimento facciale e di una microcarica esplosiva, che cercano il volto giusto all’interno di una folla e lo colpiscono con precisione chirurgica.
Era un cortometraggio pensato come monito etico, non come documentario operativo. Eppure, chiunque lavori nel mondo della sicurezza e della difesa ha avuto la stessa sensazione guardandolo: non è una fantasia, è una traiettoria.
In fondo, la differenza tra “fantascienza” e “anticipazione” è solo una: il tempo. Quel video mostrava un possibile domani; la cronaca degli ultimi anni ci racconta che molti dei tasselli tecnologici necessari sono già qui, disponibili sugli scaffali di qualsiasi e-commerce.
Il primo salto è avvenuto sui campi di battaglia, non nelle nostre città. L’ISIS è stato tra i primi attori non statali a capire che un piccolo quadricottero commerciale, pensato per riprendere matrimoni e panorami, poteva diventare in poche ore una piattaforma d’arma improvvisata. Nei cieli di Mosul e Raqqa hanno cominciato ad apparire droni con granate modificate, ordigni leggeri sganciati sulle trincee o sui mezzi delle forze irachene, in una forma rudimentale ma efficace di artiglieria povera.
Non era tecnologia avveniristica: era la somma di tre elementi banali, disponibilità commerciale, creatività tattica, assenza di scrupoli.
All’epoca restava comunque una strategia acerba, limitata e senza un reale impiego sistematico.
Da allora, l’evoluzione è stata brutale. La guerra in Ucraina ha reso visibile a tutto il mondo ciò che molti analisti temevano da tempo: il drone non è più un supporto di nicchia, ma una componente strutturale del campo di battaglia. Droni FPV a basso costo, nati per il racing e per il gaming, sono stati trasformati in munizioni vaganti guidate in prima persona, caricate con esplosivo e lanciate contro veicoli, postazioni, persino singoli soldati. La vita operativa di questi sistemi si misura spesso in un solo volo, ma il rapporto tra costo e danno potenziale è talmente favorevole da rendere sostenibile un impiego di massa.
Quando un esercito pianifica l’acquisto di milioni di droni per un solo anno di guerra, capiamo che non siamo più di fronte a una novità tecnologica, ma all’ingresso definitivo di una nuova categoria operativa. In epoca feudale fu il cavallo a cambiare le regole del combattimento; nel XX secolo lo fecero il carro armato e l’aeroplano. Oggi è il drone, e non solo quello volante, ma qualsiasi piattaforma radiocomandata o semi-autonoma che possa muoversi sul terreno, sotto il terreno, sull’acqua o nell’aria. Si stanno già formando unità intere dedicate al loro impiego, reparti che rappresentano la nascita di una nuova branca alla pari delle specialità più classiche.
Parallelamente, anche il “cervello” di questi sistemi è cambiato. All’inizio era solo il pilota remoto: un operatore con un tablet o un visore che guidava il drone come se fosse un videogioco letale. Oggi entrano in scena algoritmi di navigazione autonoma, riconoscimento di forme e veicoli, sistemi di guida assistita che correggono la rotta negli ultimi secondi di volo, modalità fly-by-wire e strumenti che permettono di superare disturbi elettronici o perdita di segnale.
In Ucraina, ad esempio, sono già impiegati software che, una volta indicata la zona e il tipo di bersaglio, aiutano il drone a individuare l’obiettivo e a portare a termine l’azione anche in condizioni in cui un operatore umano sarebbe cieco. È ancora l’uomo a decidere chi colpire, ma è sempre meno solo nella fase più delicata: quella terminale.

Se mettiamo insieme queste tessere, droni commerciali economici, esplosivi artigianali, software open-source di pianificazione e moduli di visione artificiale, capiamo anche perché il fenomeno non sia rimasto confinato ai fronti convenzionali.
In America Latina, e in particolare in Messico (ma non solo) i cartelli della droga hanno iniziato a usare droni con cariche esplosive contro polizia ed esercito. In diversi episodi, quadricotteri modificati hanno lanciato ordigni improvvisati su pattuglie e posti di blocco, ferendo agenti, danneggiando veicoli, aprendo varchi in barricate e posti di controllo. In almeno un caso, un elicottero della polizia è stato colpito durante un’operazione combinata, a dimostrazione che il confine tra “giocattolo volante” e minaccia antiaerea improvvisata è più sottile di quanto vorremmo credere.
Non si tratta più soltanto di osservazione dall’alto, già preziosissima per chi organizza sequestri, rapine o traffici illegali, ma di una forma embrionale di potere aereo nelle mani di organizzazioni criminali. Un potere aereo che non richiede piste, piloti addestrati o infrastrutture complesse: basta un operatore con un minimo di manualità e qualche tutorial recuperato online. Dove un tempo servivano velivoli e strutture statali, oggi basta una valigetta.
La vera accelerazione, però, non è solo quantitativa; è qualitativa. La guida dei droni criminali e terroristici sta seguendo, con qualche anno di ritardo, la stessa curva dei sistemi militari. I primi impieghi erano grossolani, un drone commerciale con una bomba legata sotto, pilotato a vista finché era abbastanza vicino da sganciare.
Oggi parliamo di missioni pre-programmate su waypoint, ritorno automatico alla base, profili di volo che seguono il terreno, voli a bassissima quota per restare sotto la sorveglianza elettronica e perfino droni che vengono posati sul terreno, spenti per ore come trappole silenti, pronti a riaccendersi autonomamente quando l’obiettivo transita nella loro area. In quel momento decollano, accelerano e attaccano, lasciando alla vittima una finestra di reazione praticamente nulla. È una logica che ricorda quella di una mina, ma con un’efficacia incomparabilmente superiore, capace di avvicinarsi a percentuali di successo che una mina tradizionale non raggiungerebbe mai.
È importante chiarire un punto: la minaccia non sta nel drone in sé. Un quadricottero non è “cattivo” per natura più di quanto lo sia un coltello da cucina o perfino un’arma da fuoco. La minaccia nasce dall’accoppiata tra un mezzo estremamente versatile e una soglia d’ingresso bassissima, economica, tecnica e logistica.
Il drone consente a un attore relativamente povero, un gruppo terroristico, un cartello, una gang, di sollevarsi dal livello della strada e colpire sfruttando la terza dimensione, senza dover costruire nulla da zero. È la democratizzazione del terrore dall’alto.

Per gli apparati di sicurezza questo pone almeno tre problemi.
Il primo è di percezione: molti cittadini continuano a vedere il drone come un gadget, non come un potenziale moltiplicatore di violenza, e la maggior parte delle forze di polizia non ha ancora programmi strutturati né attrezzature adeguate per contrastare questa nuova minaccia.
Il secondo è legale: le norme nate per regolamentare l’uso civile e commerciale spesso non sono pensate per impedire l’impiego criminale o terroristico.
Il terzo è operativo: le contromisure davvero efficaci, radar dedicati, sistemi di jamming, intercettori cinetici o droni cacciatori, hanno costi e complessità che le rendono difficili da distribuire su larga scala. Per capirci: mentre l’acquisto e l’adattamento di un drone commerciale è relativamente facile, rapido ed economico, la creazione e l’implementazione di un sistema anti-drone richiede ricerca, infrastrutture, formazione e investimenti continui.
Il risultato è una crescente asimmetria: da una parte attori che, con poche migliaia di euro, possono dotarsi di un micro-arsenale aereo adattabile; dall’altra istituzioni che devono difendere infrastrutture critiche, forze dell’ordine e popolazione con strumenti ancora pensati per minacce tradizionali e del tutto inefficaci contro un drone.
Non è un motivo per cedere al panico, ma è un errore continuare a considerare i droni armati come una curiosità esotica vista in qualche teatro lontano o come strumenti riservati a reparti militari altamente addestrati.

Quello che i video distopici di pochi anni fa cercavano di dirci, con un linguaggio volutamente estremo, oggi lo possiamo leggere nei report delle guerre e nelle cronache di sicurezza di diversi Paesi: i droni sono passati dall’essere una novità a essere un’abitudine.
La domanda non è più se saranno usati da criminalità e terrorismo, ma quanto velocemente si diffonderanno nelle loro versioni più autonome, più precise, più silenziose.
E se saremo in grado di adattare il nostro modo di pensare la sicurezza a un cielo che, piaccia o no, non è più vuoto.

Dal cortometraggio che mostrava micro-droni assassini ai teatri di guerra e alle azioni dei cartelli sudamericani: come la minaccia si è spostata dalla fantasia alla realtà operativa.






