La tensione internazionale attorno al Venezuela è tornata a livelli altissimi. Dopo l’aumento della taglia su Nicolás Maduro a 50 milioni di dollari e la designazione del Cartel de los Soles come organizzazione terroristica, gli Stati Uniti hanno dato avvio a un’imponente operazione militare a ridosso delle coste caraibiche del Paese sudamericano.

Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, tre cacciatorpediniere Aegis con missili guidati – l’USS Gravely, l’USS Jason Dunham e l’USS Sampson –, supportati da sottomarini, aviazione e unità di ricognizione P-8, si stanno avvicinando al limite del mare territoriale venezuelano. In totale, il dispositivo conta circa 4.000 marines schierati nel Mar dei Caraibi, con l’obiettivo dichiarato di contrastare le attività dei cartelli della droga latinoamericani.
La decisione arriva a pochi giorni dall’ordine firmato dall’allora presidente Donald Trump, che ha autorizzato l’uso diretto delle forze armate statunitensi contro le organizzazioni criminali internazionali legate al narcotraffico.
In questo contesto, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha sottolineato che nelle ultime settimane sono stati confiscati 700 milioni di dollari in beni riconducibili a Maduro e ai suoi collaboratori. Washington accusa infatti il leader venezuelano di essere al vertice del Cartel de los Soles, insieme a esponenti di primo piano del regime chavista.

Un elemento che suscita particolare curiosità è il tempismo dell’operazione militare: essa infatti si colloca subito dopo la riunione tra Donald Trump e Vladimir Putin.
Il Venezuela è da sempre uno degli alleati più solidi della Russia in America Latina e Maduro, in particolare, ha sempre sottolineato la propria vicinanza politica e strategica a Mosca.
Che l’operazione sia scattata con un tacito via libera da parte del Cremlino? Un interrogativo che molti osservatori internazionali iniziano a porsi, considerando il peso che la Russia esercita come partner storico e principale sostenitore del regime chavista.

Il governo di Nicolás Maduro ha reagito con fermezza. Il presidente venezuelano, che definisce le accuse “un’infamia dell’imperialismo nordamericano”, ha annunciato il dispiegamento di 4,5 milioni di miliziani su tutto il territorio nazionale.
«Questa settimana – ha dichiarato Maduro in un discorso televisivo – attiveremo un piano speciale per garantire la copertura del Paese con milioni di miliziani, pronti, attivati e armati per difendere la nostra sovranità».
Tuttavia, gli osservatori internazionali sottolineano come gran parte di queste forze sia composta da personale anziano, scarsamente addestrato, male armato e dotato di equipaggiamenti obsoleti.
Il ministro della Difesa, Vladimir Padrino López, ha bollato come “assurda e immorale” l’accusa che lega il governo venezuelano ai cartelli del narcotraffico, sostenendo che le organizzazioni criminali sarebbero già state “totalmente disarticolate” nel Paese.
Il confronto tra Washington e Caracas sembra dunque entrare in una fase critica. Se da una parte gli Stati Uniti rafforzano la pressione militare e politica per isolare Maduro, dall’altra il regime bolivariano punta sulla mobilitazione interna e sul sostegno delle sue Forze Armate per resistere.
«Il Venezuela difenderà i suoi cieli, i suoi mari e la sua terra» – ha ribadito Maduro – definendo l’azione americana come una «minaccia bizzarra di un impero decadente».

L’operazione americana non può essere letta soltanto come un’azione contro il narcotraffico. Essa si inserisce in un quadro geopolitico più ampio, in cui il Venezuela rappresenta da anni il principale avamposto della Russia in America Latina.
Mosca ha fornito a Caracas supporto politico, economico e soprattutto militare, con forniture di armamenti, addestramento e cooperazione energetica. Per questo motivo, il fatto che l’operazione statunitense arrivi subito dopo l’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin ha destato non poche domande: che il Cremlino abbia deciso di non ostacolare – o addirittura di tollerare – la pressione militare americana su Maduro?
Alcuni analisti interpretano la situazione come un segnale di scambio geopolitico: la Russia potrebbe aver accettato un ridimensionamento dell’appoggio a Caracas in cambio di aperture da parte degli Stati Uniti su altri fronti più rilevanti per Mosca, come l’Europa orientale o il Medio Oriente.
Se così fosse, la posizione di Nicolás Maduro apparirebbe oggi più fragile che mai: stretto tra le pressioni interne, l’isolamento diplomatico e il rischio di perdere l’appoggio del suo più importante alleato strategico.

Venezuela, Nicolás Maduro all'angolo: 4.000 marines e navi da guerra USA alle porte del Paese






