Negli ultimi anni il termine “leadership” ha invaso il dibattito militare, spesso portando a un appiattimento verso modelli aziendali inadatti alle sfide della guerra. In un contesto come l’Italia, dove l’impiego militare ha un profilo più politico-difensivo che offensivo, emerge l’urgenza di ripensare ai criteri di selezione dei leader militari — soprattutto in uno scenario in cui la prudenza viene anteposta al coraggio, e si tende ad apprezzare chi si conforma (“yes-man”) piuttosto che chi osa prendersi responsabilità sul campo.
L’adozione di terminologia anglosassone come “leader” o “manager” ha contribuito a sradicare concetti profondamente radicati nella tradizione militare italiana, come il “capo” o il “condottiero”. Questi termini rappresentano non solo figure di comando, ma portatori di carisma, onore, senso del dovere e responsabilità. Ridurre il comandante a mero gestore di risorse umane rischia di svuotarlo di autorevolezza e significato — un riduzionismo pericoloso quando, in condizioni estreme, la vita è ciò che conta. Il comandante non è un amministratore: è il punto di riferimento etico, militare e umano della truppa.

Comandare richiede doti innate — come l’intuito tattico, il coraggio, la coerenza morale — ma anche una solida formazione, esperienze professionali sul campo, e progressivo consolidamento delle competenze. L’autorevolezza non si decreta: si conquista nel tempo, attraverso una personalità etica e coerente, e un senso di appartenenza condiviso.
La forza del comandante è simile a un talento atletico: va coltivato mediante allenamento, esperienza e riflessione continua. La formalità del grado serve poco se non è supportata da una leadership morale riconosciuta e desiderata da chi si trova a servire sotto quel comando.
In Italia, dove le operazioni militari hanno un profilo prevalentemente difensivo o di supporto civile, la prudenza è spesso considerata una virtù superiore al coraggio temerario. In questo contesto, la catena di comando — e in particolare lo Stato Maggiore — tende a valorizzare la fedeltà e l’allineamento (“yes-man”) piuttosto che le proposte innovative o critiche costruttive da parte di comandanti sul campo.
Questo porta a un clima in cui la difformità di pensiero, pur potenzialmente vitale nella valutazione del terreno, viene scoraggiata a favore della conformità e della coerenza istituzionale. Ne deriva una leadership spesso conservativa, attenta a non esporsi, più attenta al consenso interno che alla voglia di guidare.

Una cultura militare eccessivamente prudente rischia di trasformarsi in immobilismo. Quando si rivaluta solo ciò che piace a vertici, si perde la capacità di adattamento, la prontezza nelle decisioni sotto pressione, e il coraggio — inteso anche come responsabilità — di agire quando la posta in gioco lo richiede.
È fondamentale non sacrificare il giudizio critico sull’altare della coerenza. Anche nella cautela, un comandante deve saper essere autonomo nel pensiero, capace di sollevare dubbi e proporre vie alternative, e di agire quando è necessario.
Storicamente, figure come Napoleone riconoscevano l’importanza del coraggio, del talento, dell’intuito e, sì, anche della fortuna nella scelta dei loro generali. In situazioni reali, la capacità di adattarsi, di prendere decisioni rapite ma ponderate, la solitudine del comando e la necessità di agire con coerenza, restano centrali.
Oggi più che mai, chi comanda in ambito militare dovrebbe essere selezionato sulla base di:
In sintesi, la selezione dei leader militari in una nazione come l’Italia richiede un equilibrio consapevole tra prudenza e coraggio, tra rispetto della gerarchia e autonomia critica, tra fedeltà istituzionale e responsabilità personale. Resistere alla tentazione del comando acritico è fondamentale per non trasformare un’istituzione difensiva in un apparato di conformismo.

Prudenza o Coraggio? Come scegliere i Futuri Leader militari in Italia






