Quando il quotidiano Il Foglio titola “Meno politica, più strategia. L’importanza dei militari in Aula”, mette in luce il cambio di prospettiva: non è la solita messa in scena mediatica, ma il tentativo, finalmente serio, di riportare il dibattito sulla Sicurezza Nazionale alla concretezza delle minacce, ai numeri e ai piani operativi.
Guido Crosetto, in qualità di Ministro della Difesa, ha avuto il merito di rompere un’antica convenzione italiana: affrontare la possibilità di un conflitto, e la conseguente necessità di riarmo non come un dogma ideologico, ma come una responsabilità fondamentale di governo. Sotto questo aspetto, è corretto definirlo il Ministro della Difesa più concreto, e probabilmente il migliore, degli ultimi decenni repubblicani.
Il progetto di legge che il Governo sta per presentare al Consiglio dei ministri comporta un investimento potenziale di circa dieci miliardi di euro all’anno. Non si tratta unicamente della (molto discussa) leva su base volontaria, ma di una riorganizzazione completa del sistema Difesa proiettata verso lo scenario che i servizi di intelligence prevedono per il 2030, includendo un potenziale attacco russo a un membro NATO, in linea con le stime tedesche.
I punti cardine della riforma sono ben definiti:
Qual è l’elemento di maggiore positività in questa prospettiva?
La concezione, quasi rivoluzionaria per l’Italia, che la Difesa non sia un luogo per sfoghi politici, ma una funzione essenziale dello Stato da costruire con lucidità tecnica.
Crosetto è trasparente: l’Italia è impreparata di fronte alla minaccia e l’aumento delle spese non è un favore alla NATO, ma una risposta obbligata al riarmo altrui. La realtà, se ignorata, si impone.
In quest’ottica, l’Audizione dei vertici militari in Parlamento non è un fatto folcloristico, ma un momento di formazione cruciale per la classe politica e l’opinione pubblica. E qui Il Foglio, centra l’obiettivo: meno chiacchiere, più esperti, più analisi dei dati, più pianificazione strategica.
Si possono aggiornare le normative, definire nuovi ambiti operativi e creare una moderna “arma cyber”, ma se il meccanismo di valutazione, responsabilità e avanzamento di carriera resta immutato, la nuova architettura poggerà su fondamenta obsolete.
Nelle Forze Armate italiane continua a pesare, in alcune aree, una cultura in cui la promozione è ancora troppo legata a formalismi burocratici e prassi consolidate, più che alla misurazione sistematica dei risultati operativi e gestionali. Solo con l’attuale governo hanno iniziato a emergere segnali di discontinuità e una più forte enfasi sulla meritocrazia, ma molti meccanismi di valutazione restano di fatto ereditati dal passato.
È il futuro a preoccupare: oggi al vertice della Difesa c’è Guido Crosetto, figura che si è dimostrata pragmatica e orientata al merito, ma domani, con un cambio di esecutivo, cosa accadrebbe se queste linee non fossero consolidate in riforme strutturali? Senza un cambiamento profondo delle regole del gioco, basterebbe un diverso indirizzo politico per riportare lo strumento militare dentro le vecchie logiche.
Fino a quando i comandanti non saranno giudicati su metriche chiare e misurabili, legate alla prontezza operativa, all’addestramento, all’interoperabilità e allo sviluppo delle capacità operative; fino a quando non sarà introdotto un reale meccanismo di cessazione dal servizio per mancato raggiungimento degli obiettivi, con l’uscita obbligata per chi non raggiunge standard minimi, il cambiamento non potrà che essere parziale.
È in questo senso che la celebre, amara osservazione “da Caporetto a oggi poco è mutato” va oltre l’iperbole: per decenni gli errori non sono stati analizzati in profondità quanto avrebbero meritato, le conseguenze sono state spesso limitate e la responsabilità si è fin troppo facilmente dispersa tra procedure, consuetudini e gradini gerarchici.

Un punto cruciale è il legame con il settore industriale. Crosetto conosce il comparto a fondo e ha sempre sostenuto che la sua sostenibilità dipende dal fatto che le scelte strategiche siano guidate dalle priorità nazionali di sicurezza, non dagli interessi commerciali.
Il Capo di stato maggiore della Difesa, Generale C.A. Luciano Portolano, ha riassunto questa posizione in modo esemplare: l’industria deve fornire supporto, non imporre i propri modelli. Non sono le aziende a dover imporre le esigenze operative alle Forze armate, né a scrivere indirettamente la strategia del Paese.
Il principio ideale è chiaro:
In concreto, ci sono tre rischi principali.
Primo: che i programmi siano disegnati più per mantenere attive linee di produzione o equilibri regionali che per rispondere alle sfide belliche attuali.
Secondo: una forma sottile di influenza sistemica, fatta di promesse, esplicite o implicite, di incarichi di alto livello dopo il congedo, poltrone in consigli di amministrazione, consulenze prestigiose, garanzie di carriera per chi in uniforme decide oggi, e lo stesso tipo di chimere rivolte all’apparato politico.
Terzo: una classe dirigente e un circolo di “analisti civili” superficiali, la cui presunta competenza deriva da brevissimi periodi di riserva selezionata, vent’anni di talk show senza aver mai gestito uomini o crisi, o da ex generali che hanno scalato la burocrazia e si atteggiano a oracoli.
Se non si eliminano questi tre circuiti viziosi, l’industria che decide, il fenomeno delle porte girevoli e la tolleranza verso i finti esperti, l’interesse nazionale sarà regolarmente deviato verso interessi di parte. I dieci miliardi aggiuntivi di spesa rischieranno di consolidare vecchi schemi, anziché costruire le capacità realmente necessarie.

Infine, la struttura di comando.
L’Italia entra nell’era dei domini integrati, terra, mare, aria, spazio, cyber, ma porta il peso di un apparato che, sotto molti aspetti, sembra ancora ancorato alla Seconda Guerra Mondiale: eccessivamente gerarchico, burocrazia lento nell’adeguamento e geloso delle proprie competenze interforze. Il tutto condito da abbondanti dosi di burocrazia (uno dei primi nemici che il Capo di SME Carmine Masiello ha deciso di “combattere”, ricordate?).
In poche parole, l’esatto opposto di ciò che richiede il futuro.
Crosetto lo chiarisce quando parla di conflitti ibridi, dominio cyber e della necessità di integrare rapidamente tutti i livelli dello strumento militare:
Se l’intera catena di comando continua a operare con una mentalità adatta a fronti statici e tempi dilatati, rischiamo di affrontare una guerra del 2030 (si spera solo sulla carta) con la strategia del 1943. E, in quel caso, il necessario salto culturale rimarrebbe incompiuto.

L’azione descritta da Il Foglio “meno propaganda, più colonnelli” è un segnale di grande peso: la Politica si ritira per un attimo per ascoltare i tecnici, trasformando il Parlamento (eccezionalmente) in un luogo di analisi serie sulla minaccia russa, sugli impegni NATO e sulle carenze del nostro sistema.
Crosetto ha messo in campo:
Per queste ragioni, è giustificato considerarlo il Ministro della Difesa più orientato al risultato che la Repubblica abbia avuto.
Ma il risultato finale non è ancora garantito.
Finché i militari non saranno valutati davvero su responsabilità e risultati, con carriere che premiano il merito e non l’abilità burocratica; finché l’allontanamento coatto degli Alti Dirigenti inefficaci resterà un tabù; finché l’industria continuerà a indirizzare la strategia anziché esserne un supporto; e finché la struttura di comando non si libererà della rigidità ereditata dal XX secolo, l’Italia rimarrà bloccata in un apparato militare che appare moderno solo in superficie, ma resta profondamente arcaico.
Ed è qui che il nodo politico diventa decisivo. Alcuni dei cambiamenti oggi visibili sono legati alla sensibilità dell’attuale esecutivo e del Ministro della Difesa, ma senza una riforma strutturale in questa direzione tutto resta reversibile: basterà un cambio di maggioranza per riportare lo strumento militare dentro le vecchie logiche.
Per questo, ben venga la presenza dei militari in Parlamento e lode a un ministro pragmatico.
Ma la vera rivoluzione si compirà solo quando questi orientamenti verranno cristallizzati in regole e sistemi di valutazione. Il segnale di svolta sarà il giorno in cui, oltre ad ascoltare i colonnelli in audizione, vedremo i primi generali rimossi per mancato raggiungimento degli obiettivi, non per limiti di età.
Solo allora il cambiamento sarà davvero irreversibile, e non l’ennesimo maquillage destinato a svanire al prossimo cambio di maggioranza.

Pragmatismo, non ideologia: perché Crosetto è un grande Ministro. Ma non basta! - Copyright Foto Ministero della Difesa






