Il 12 agosto 2000, nel gelido Mare di Barents, si consumò una delle più gravi tragedie navali della storia moderna: l’affondamento del sottomarino nucleare russo K-141 Kursk, con la morte di tutti i 118 membri dell’equipaggio. Un disastro che, oltre al dolore, lasciò dietro di sé domande senza risposta, accuse di insabbiamento e un duro colpo all’immagine della Marina russa.
Il Kursk, varato nel 1994 ed entrato in servizio l’anno successivo, apparteneva alla classe Oscar II ed era uno dei vanti della flotta subacquea russa. Lungo oltre 150 metri, con una stazza di 18.000 tonnellate e spinto da due reattori nucleari a fissione, poteva raggiungere i 32 nodi (circa 60 km/h) in immersione. La sua missione principale era neutralizzare le portaerei nemiche grazie a un arsenale imponente di missili da crociera e siluri.
Tuttavia, dietro questa potenza si nascondevano fragilità strutturali e organizzative. La Russia post-sovietica, negli anni ’90, attraversava una profonda crisi economica: manutenzione, addestramento e sicurezza erano spesso sacrificati per mancanza di fondi.

Il 12 agosto 2000, durante un’esercitazione che prevedeva il lancio simulato di siluri contro l’incrociatore nucleare Pietro il Grande, si verificò la prima esplosione a bordo. Secondo le indagini ufficiali, la causa fu un difetto in un siluro a propellente liquido, che generò una fuga di idrogeno e un’esplosione pari a 100 kg di tritolo.
Due minuti dopo, una seconda deflagrazione — 40 volte più potente — squarciò la prua del sottomarino, provocando l’immediata morte della maggior parte dell’equipaggio. Almeno 23 uomini riuscirono a rifugiarsi nella sezione di poppa, dove resistettero per circa otto ore prima di morire asfissiati dal monossido di carbonio.
La gestione dell’emergenza fu segnata da ritardi e scelte discutibili. Il governo russo rese pubblica la notizia solo due giorni dopo e inizialmente rifiutò gli aiuti internazionali. I primi tentativi di soccorso partirono con grande ritardo, ostacolati da problemi tecnici e dal maltempo.
Solo il 17 agosto, cinque giorni dopo l’incidente, la Russia accettò l’assistenza britannica e norvegese. Il 19 agosto, il batiscafo britannico LR5 raggiunse il relitto, confermando l’assenza di superstiti. Nel frattempo, le famiglie delle vittime denunciavano la mancanza di informazioni e la scarsa trasparenza delle autorità.

Nell’ottobre 2001, in una delle più complesse operazioni di recupero mai realizzate, gran parte dello scafo fu sollevata e trasportata alla base di Roslyakovo. La prua, gravemente danneggiata, fu fatta esplodere sul fondale per motivi di sicurezza — ufficialmente per evitare rischi ambientali, ufficiosamente per impedire che altre potenze potessero analizzare la tecnologia impiegata.
L’inchiesta russa, conclusa nel 2002, attribuì la colpa a un siluro difettoso e non individuò responsabilità personali. Il procuratore generale Ustinov dichiarò che non esistevano reali possibilità di salvataggio dei 23 uomini sopravvissuti alle esplosioni.
L’assenza di prove definitive e la gestione opaca dell’incidente alimentarono teorie alternative: tra queste, l’ipotesi che il Kursk sia stato colpito da un siluro statunitense durante un incontro ravvicinato con un sottomarino USA. Sebbene mai confermata, questa teoria continua a circolare negli ambienti militari e giornalistici.
L’incidente rappresentò un test difficile per Vladimir Putin, presidente da pochi mesi. La sua decisione di rimanere in vacanza a Sochi nei giorni immediatamente successivi all’affondamento gli costò pesanti critiche, anche a livello internazionale. Celebre, e discussa, fu la sua risposta al giornalista Larry King, che gli chiese cosa fosse successo al sottomarino: «È affondato», disse sorridendo.
Il Kursk è diventato il simbolo di un’epoca di transizione per la Russia, in cui potenza militare e orgoglio nazionale convivevano con gravi limiti tecnici e gestionali. La vicenda spinse la Marina russa a rivedere procedure di sicurezza, formazione degli equipaggi e protocolli di emergenza.
Oggi, un memoriale ricorda i 118 uomini morti in quella che resta la più grave tragedia della Marina russa in tempo di pace. La loro storia, come quella del Kursk, è un monito sulla fragilità delle certezze e sul prezzo umano che si paga quando errori tecnici, ritardi e segretezza si combinano in un contesto ad altissima pericolosità.

Kursk: la tragedia del sottomarino russo che scosse il mondo - DEFENSANEWS.COM - Noticias defensa y seguridad






