Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)

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L’Italia è stato il primo Paese al mondo a sperimentare unità militari d’élite, pioniere di tattiche innovative e mezzi d’assalto mai visti prima: per terra con gli Arditi e per mare con le audaci flottiglie MAS della Regia Marina. Fin dalle loro origini, queste unità hanno incarnato il coraggio e la capacità di anticipare nuove modalità operative, creando una tradizione destinata a ispirare le moderne Forze Speciali di tutto il mondo.

Già l’esercito romano impiegava reparti speciali, come gli Exploratores e gli Speculatores, dedicati a missioni di esplorazione e ricognizione. Si trattava di soldati addestrati per operazioni avanzate, in parte assimilabili alle moderne unità di ricognizione.

Tuttavia, per incontrare vere formazioni concepite con una strategia fondata sull’audacia, sulla sorpresa e sulla rottura degli schemi convenzionali, bisogna arrivare agli inizi del XX secolo con la nascita degli Arditi.

Una storia tutta italiana, che segnerà un percorso destinato a trasformare per sempre il modo di affrontare i conflitti, introducendo un modus operandi mirato ad aprire scenari asimmetrici e a sperimentare tecniche di combattimento non convenzionali.

I primi Incursori della storia: gli Arditi

All’inizio del Novecento, il mondo militare avvertiva con urgenza la necessità di innovare le tattiche d’assalto per affrontare una guerra sempre più moderna e complessa. La svolta arrivò nel 1917, nel pieno della Prima Guerra Mondiale, quando nacquero ufficialmente le prime forze speciali italiane: le unità d’assalto del Regio Esercito.

Questi reparti, concepiti per azioni di rottura delle linee nemiche, rappresentavano una novità assoluta sul piano strategico. Non erano semplici fanti, ma soldati scelti, caratterizzati da un addestramento specifico e da un equipaggiamento leggero che li rendeva estremamente mobili e particolarmente efficaci negli scontri corpo a corpo.

Erano i leggendari Arditi, specialità dell’arma di fanteria del Regio Esercito, organizzati in reparti autonomi con funzioni operative innovative. La loro natura “asimmetrica” consentiva di influenzare le battaglie con interventi rapidi e mirati, spesso condotti nell’ombra, sostituendo la forza bruta con discrezione, sorpresa e superiorità addestrativa.

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
Gli Arditi rappresentano i precursori delle attuali forze speciali italiane – Copyright Esercito Italiano
Gli Arditi erano addestrati a penetrare le linee nemiche e a compiere atti di sabotaggio con rapidità e coordinazione, sfruttando l’elemento sorpresa come arma principale delle loro incursioni. Equipaggiati con pugnali, petardi e pistole mitragliatrici leggere, erano considerati l’élite del Regio Esercito e venivano impiegati in missioni ad altissimo rischio, spesso caratterizzate da perdite elevatissime.
A differenza dei reparti di fanteria tradizionali, il loro obiettivo non era semplicemente la conquista di posizioni, ma l’inflizione di danni significativi e la destabilizzazione delle forze nemiche, aprendo così la strada all’avanzata delle linee italiane.

Il primo centro di addestramento fu istituito a Sdricca di Manzano, vicino Udine. Qui gli Arditi venivano preparati nelle tecniche di combattimento corpo a corpo, nell’assalto rapido e in un percorso formativo che li temprava non solo fisicamente ma anche psicologicamente, affinché fossero pronti a missioni che richiedevano coraggio e determinazione assoluti.

Parallelamente, anche la Regia Marina sviluppò i propri reparti di incursori, i cosiddetti gruppi di incursione marittima, composti da specialisti in attacchi subacquei e azioni di sabotaggio. Questi uomini utilizzavano imbarcazioni leggere, come i MAS (Motoscafi Armati Siluranti), e i celebri “maiali”, siluri modificati e pilotati da operatori addestrati, con i quali colpivano direttamente le unità navali nemiche. Le loro missioni, spesso condotte in totale isolamento, erano caratterizzate da un’audacia straordinaria e da un altissimo livello di rischio.

Tra gli incursori marittimi non mancarono episodi celebri, che videro protagonisti uomini coraggiosi e mezzi tecnologicamente innovativi. Queste azioni segnarono il debutto delle prime vere missioni di assalto subacqueo della storia italiana e posero le basi per la nascita delle future unità di forze speciali navali della Marina Militare.

Esperimenti prima del 1917

Ancor prima della nascita ufficiale degli Arditi, il Regio Esercito aveva già avviato alcuni tentativi di sviluppare unità speciali. Nel 1914 vennero creati i Gruppi di Esploratori, soldati addestrati ad agire dietro le linee nemiche e a sabotarne le difese. Vestiti interamente di nero per favorire la mimetizzazione, erano impiegati soprattutto in missioni esplorative e nel taglio dei reticolati avversari.

Un’altra anticipazione degli Arditi furono le cosiddette Compagnie della Morte, costituite da pattuglie speciali di fanteria e del genio. Questi uomini erano dotati di corazze e caschi protettivi, spesso del modello “Farina”, e addestrati per operazioni ad altissimo rischio, come il brillamento degli ostacoli e l’apertura di varchi nei reticolati sotto il fuoco nemico.

Nel 1916, il Comando Supremo stabilì che la qualifica di “militare ardito” dovesse essere attribuita ai soldati che si distinguevano per coraggio e determinazione. Fu però posto il divieto esplicito di costituire reparti speciali permanenti. Come riconoscimento venne assegnato un distintivo: il monogramma reale “VE” (Vittorio Emanuele), da portare sul braccio sinistro, concepito come segno d’onore e simbolo di esempio per tutti gli altri militari. Questo emblema, più che un semplice ornamento, segnò la nascita del termine “Ardito” nell’immaginario collettivo, preparando il terreno alla creazione dei futuri reparti d’assalto.

La nascita degli Arditi non fu un evento isolato, ma il risultato di una progressiva evoluzione delle tattiche e delle esigenze operative maturate durante la Grande Guerra.

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Gli arditi della Brigata Bologna al comando del Ten. Arturo Avolio – – Free Copyright Creative Commons Wikipedia

Il primo impiego nella Battaglia di Gorizia

Il primo impiego dei cosiddetti “plotoni speciali” risale all’agosto del 1916, durante la Battaglia di Gorizia, negli scontri tra la Brigata Lambro e l’esercito austro-ungarico presso quota 188 e il Dosso del Bosniaco. Tuttavia, a causa dell’imprecisione dei rapporti ufficiali e delle difficoltà del terreno – disseminato di reticolati e sottoposto al fuoco intenso dell’artiglieria austriaca – risulta difficile stabilire con certezza l’efficacia concreta di questi reparti sull’esito dello scontro.

È comunque probabile che venissero impiegati come unità di rottura nelle posizioni indicate e come reparti esploranti una volta superata la linea di Gorizia.

Ulteriori azioni significative si verificarono l’11 febbraio 1917, quando due plotoni riconquistarono la trincea del saliente di Casa dei Pini, persa due giorni prima dal 206º Battaglione della Brigata Lambro. Il 26 febbraio, invece, un altro plotone irruppe in una trincea nei pressi di Belpoggio, riuscendo a conquistarla.

Le innovazioni del Maggiore Giuseppe Bassi

Nel 1917, sulla base delle proposte di alcuni generali consapevoli della necessità di superare la strategia tradizionale dell’assalto frontale supportato dall’artiglieria, e grazie all’iniziativa di giovani ufficiali insoddisfatti della stasi e della carneficina della guerra di trincea, venne sperimentata un’unità speciale presso la 48ª Divisione dell’VIII Corpo d’Armata. Questa formazione fu affidata al comando del Maggiore Giuseppe Bassi, affiancato dal Sergente Giuseppe Longoni.

Bassi redasse una nota innovativa sull’impiego delle pistole mitragliatrici Fiat Mod. 15/OVP (Officine Villar Perosa), proponendo modifiche tecniche di grande rilievo: la rimozione dello scudo protettivo, l’introduzione di un bipode leggero e una guida per facilitare la sostituzione dei caricatori anche al buio e in pieno combattimento. La sua proposta non si limitava agli aspetti tecnici, ma includeva una nuova dottrina d’impiego, che ottimizzava le sezioni mitragliatrici e definiva l’equipaggiamento ideale per le unità: pugnali e petardi accanto a moschetti e pistole a tamburo, per aumentare l’aggressività e l’efficacia dei soldati in azione.

La relazione, inoltrata al Generale Gaetano Giardino nel novembre 1916, ottenne il suo plauso e venne quindi trasmessa al Generale Grazioli per un esame superiore. Comandante della Brigata Lambro, Grazioli adattò probabilmente quelle note alle proprie riflessioni sui plotoni speciali e il 7 marzo 1917 emise una direttiva ai comandanti di reggimento, disponendo la creazione di reparti d’attacco specializzati in incursioni a sorpresa, colpi di mano, contrattacchi improvvisi e operazioni non previste dalla fanteria convenzionale.

Il 14 marzo 1917, il Comando Supremo italiano venne informato della costituzione di unità speciali anche nell’esercito austro-ungarico, mentre l’esercito tedesco aveva già introdotto il concetto delle truppe d’élite, le Stoßtruppen, mediamente meglio addestrate rispetto ai reparti ordinari. Tuttavia, gli Arditi italiani non furono una semplice imitazione di tedeschi e austriaci: a differenza delle controparti, si costituirono come unità autonome, con una propria identità e una propria missione, non limitandosi a svolgere funzioni di supporto alla fanteria. Gli esperimenti del Regio Esercito in questa direzione, nati prima ancora di conoscere nei dettagli le esperienze straniere, furono decisivi nell’accelerare il progetto di istituire ufficialmente i reparti speciali italiani.

Dopo aver assistito a un’esercitazione condotta dal Maggiore Bassi, il Generale Luigi Cadorna comprese il potenziale delle nuove tattiche e diede il via libera alla creazione degli Arditi, emanando una circolare con linee guida precise per la costituzione di reparti speciali. Il 29 luglio 1917, il Re Vittorio Emanuele III ufficializzò la nascita dei Reparti d’Assalto, sancendo l’ingresso dell’Italia nell’era moderna delle forze speciali.

Grazie a questo approccio innovativo, gli Arditi vennero impiegati con successo nelle battaglie sul fronte italiano, distinguendosi per il loro coraggio e per l’abilità di infiltrarsi in profondità nelle linee nemiche, colpendo con rapidità ed efficacia.

Il battesimo del fuoco e il Monte San Gabriele

I nuovi Reparti d’Assalto ebbero il loro battesimo del fuoco durante l’Undicesima Battaglia dell’Isonzo, nell’agosto 1917, quando furono impiegati per sfondare le posizioni austro-ungariche sull’altopiano della Bainsizza. Gli Arditi si distinsero per le loro azioni audaci e per la capacità di infiltrarsi nelle linee nemiche, riuscendo a spezzare le difese avversarie e a conquistare posizioni strategiche come il Monte San Gabriele.

Il Monte San Gabriele, fortificato e ritenuto quasi inespugnabile, fu il teatro di una delle loro operazioni più celebri. All’alba del 4 settembre 1917, gli Arditi si lanciarono all’assalto della vetta, sorprendendo un nemico impreparato al loro arrivo. Con bombe a mano e lanciafiamme, travolsero le difese austro-ungariche e aprirono la strada all’avanzata delle truppe italiane.

Questo successo consegnò loro fama e riconoscimenti, consolidando definitivamente il ruolo degli Arditi come forza d’élite del Regio Esercito.

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
Manifesto di propaganda degli Arditi, prima guerra mondiale – Museo storico italiano della guerra

La conquista del Col Moschin

Alla fine della primavera del 1918, con l’estate ormai alle porte, le forze austro-ungariche tentarono un nuovo, disperato assalto per spezzare le difese italiane sul massiccio del Grappa. L’obiettivo era penetrare nelle valli del Brenta e del Piave, aggirando lo schieramento italiano lungo il corso del fiume. Il piano prevedeva un’offensiva strategica volta ad aggirare la Cima Grappa, fulcro del dispositivo difensivo, con uno sfondamento simultaneo sui lati occidentale ed orientale del complesso montuoso. L’operazione fu affidata all’XI Armata del generale Scheuschenstuel, rinforzata da nuove truppe e sostenuta da un intenso fuoco di artiglieria.

Alle 3 del mattino del 15 giugno, un violento bombardamento aprì l’offensiva. L’artiglieria italiana rispose prontamente, contenendo in parte la pressione sul settore orientale, ma alle 8 del mattino la fanteria austriaca lanciò l’attacco. I successi maggiori si registrarono sul versante occidentale, dove le cime che difendevano il fianco del Brenta cedettero rapidamente: caddero il Col del Miglio, il Col Fenilon, il Col Fagheron e lo stesso Col Moschin. In poche ore, le difese italiane sul Grappa erano sull’orlo del collasso, aprendo agli austriaci un potenziale accesso diretto alla pianura veneta.

Gli austro-ungarici, vicini a una vittoria decisiva, avrebbero dovuto rinnovare immediatamente l’offensiva per consolidare i guadagni, ma le loro riserve erano ormai quasi esaurite. Nel frattempo, la reazione italiana non si fece attendere: un intenso fuoco d’artiglieria colpì le posizioni appena conquistate, ostacolando l’afflusso di rinforzi. Nel primo pomeriggio, il IX Reparto d’Assalto, composto da poco più di 600 uomini e già allertato in previsione dell’attacco, passò al contrattacco. In poche ore riconquistò il Col Fagheron e, alle 22, riprese anche il Col Fenilon, con l’appoggio di due battaglioni del 91º Reggimento di Fanteria.

Restava però da riprendere la posizione più importante: il Col Moschin.

All’alba del 16 giugno 1918, il IX Reparto d’Assalto sferrò un attacco fulmineo e, in appena dieci minuti, riconquistò il Col Moschin, strappandolo agli austro-ungarici. L’azione portò alla cattura di circa 300 prigionieri, tra cui 17 ufficiali, e alla conquista di 25 mitragliatrici. In sole ventiquattro ore, l’offensiva nemica era stata completamente neutralizzata. In segno di riconoscenza per quell’eroica impresa, la città di Roma fece erigere sul Col Moschin un monumento commemorativo, utilizzando un’antica colonna romana.

Il successo del IX Reparto d’Assalto sul Col Moschin fu completo e con perdite relativamente contenute, grazie a una manovra condotta in condizioni favorevoli: il nemico, ormai esausto e fiaccato dal fuoco dell’artiglieria italiana, venne travolto con risolutezza da un reparto motivato e altamente addestrato.

Pochi giorni dopo, però, il 24 giugno 1918, il IX Reparto fu nuovamente chiamato all’azione per riconquistare un caposaldo austriaco sull’Asolone. In questa occasione il fuoco preparatorio dell’artiglieria risultò meno efficace, e la riconquista dell’altura costò agli Arditi un tributo di sangue altissimo. La posizione fu presa, ma solo temporaneamente: un immediato contrattacco nemico riuscì infatti a sopraffare le forze italiane, ormai stremate. Le perdite furono gravissime, quasi il 50% degli effettivi: caddero 19 ufficiali e 305 Arditi, dimostrando come gli alti comandi italiani non avessero ancora compreso appieno come impiegare al meglio le straordinarie capacità combattive di questi reparti.

Successivamente, tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918, gli Arditi furono ancora protagonisti, contribuendo in maniera decisiva allo sfondamento della linea del Piave, che portò alla vittoria finale sugli eserciti austro-ungarici e alla conclusione vittoriosa del conflitto per l’Italia.

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
Il Tenente Carlo Sabatini e i suoi Arditi del V reparto di assalto appena decorati dopo l’azione sul Monte Corno del 13 maggio 1918 – Copyright Ministero dei Beni Culturali, foto Luigi Marzocchi

Organizzazione dei Reparti d’Assalto (Prima Guerra Mondiale)

La forza complessiva era di 735 militari, suddivisi in tre compagnie da circa 200 uomini ciascuna, con una struttura che ricorda l’organizzazione dei moderni distaccamenti di forze speciali.

Struttura operativa

I Plotone d’Attacco

  • I Squadra d’Assalto: un pugnale e venti bombe a mano ciascuno
  • II Squadra d’Attacco: un pugnale, venti bombe a mano ciascuno + una pistola mitragliatrice Villar Perosa cal. 9 Glisenti (“Pernacchia”) con 10.000 cartucce
  • III Squadra d’Attacco: come la II
  • IV Squadra d’Attacco: un pugnale e venti bombe a mano ciascuno
  • Coppia di Munizionamento: due militari con quattro bisacce contenenti 150 bombe a mano ciascuna

II Plotone d’Attacco

  • Struttura analoga al I Plotone, con quattro squadre d’attacco (tre dotate di Villar Perosa) e una coppia di munizionamento.

III Plotone d’Attacco

  • Identico schema organizzativo dei precedenti.

IV Plotone d’Attacco

  • Medesima struttura con quattro squadre e una coppia di munizionamento.

V Plotone Specialisti

  • I Squadra Mitraglieri: due mitragliatrici pesanti con 20.000 cartucce
  • II Squadra Guastatori
  • III Squadra Segnalatori

VI Plotone Lanciafiamme

Compagnia Complementi

  • Circa 135 militari, ciascuno armato con un pugnale, quattro bombe a mano e un moschetto con 71 cartucce.

Plotone Specialisti

  • I Squadra Mitraglieri: due mitragliatrici pesanti con 20.000 cartucce
  • II Squadra Cannonieri: due cannoni da 65/17

Organizzazione interna delle squadre

Ogni squadra d’attacco o d’assalto era suddivisa in 5-6 coppie, per un organico di circa 12 uomini, una configurazione sorprendentemente simile a quella dei moderni distaccamenti delle forze speciali.

Il primo Paracadutista militare della storia: il Tenente Alessandro Tandura

Un momento cruciale per le forze speciali italiane, e più in generale per la storia militare mondiale, fu rappresentato dal Tenente Alessandro Tandura, primo paracadutista al mondo ad eseguire un lancio in azione di guerra. La missione ebbe luogo nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1918, quando Tandura si lanciò da un aereo Savoia-Pomilio SP.4 oltre le linee nemiche nel Veneto, grazie al supporto dei piloti britannici William George Barker e William Wedgwood Benn della Royal Air Force. L’impresa costituì un evento pionieristico nell’impiego dei paracadutisti in operazioni militari e gettò le basi per lo sviluppo delle future unità aviotrasportate italiane.

Per tale gesto, il Tenente Tandura fu insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

Animato dal più ardente amor di patria, si offriva per compiere una missione estremamente rischiosa: da un aeroplano in volo, si faceva lanciare con un paracadute al di là delle linee nemiche nel Veneto invaso, dove, con alacre intelligenza e indomito sprezzo di ogni pericolo, raccoglieva nuclei di Ufficiali e soldati nostri dispersi, e, animandoli con il proprio coraggio e con la propria fede, costituiva con essi un servizio d’informazioni che riuscì di preziosissimo ausilio alle operazioni. Due volte arrestato e due volte sfuggito, dopo tre mesi di audacie leggendarie, integrava l’avveduta e feconda opera sua, ponendosi arditamente alla testa delle sue schiere di ribelli e con esse insorgendo nel movimento cui si delineava la ritirata nemica, ed agevolando così l’avanzata vittoriosa delle nostre truppe. Fulgido esempio di abnegazione, di cosciente coraggio e di generosa intera dedizione di tutto sé stesso alla Patria.
(Piave – Vittorio Veneto, agosto – ottobre 1918)

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
Il Tenente Alessandro Tandura (a sinistra), primo paracadutista al mondo in azione di guerra, e lo schema del velivolo Savoia-Pomilio SP.4 (a destra) con i sistemi predisposti per il lancio: sedile a botola, paracadute e postazione dell’osservatore.

A pochi giorni di distanza venne eseguito anche il secondo lancio, effettuato da Pier Arrigo Barnaba, Tenente delle Fiamme Verdi, gli Arditi degli Alpini. Fu il primo Alpino Paracadutista della storia.

In futuro, paracadutismo e forze speciali saranno concetti inscindibili, uniti dalla stessa vocazione all’azione rapida e decisiva. Nel dopoguerra, molte nazioni hanno istituito reparti paracadutisti, e ancora oggi il brevetto da paracadutista rappresenta un requisito fondamentale per gli operatori delle forze speciali.

Le Flottiglie MAS

Le Flottiglie MAS rappresentarono i precursori delle forze speciali della Marina Italiana. Inquadrati nella Regia Marina, hanno una storia operativa che affonda le radici nella Prima Guerra Mondiale e si estende fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Queste unità erano costituite dai Motoscafi Armati Siluranti (MAS), progettati per condurre attacchi rapidi e fulminei contro la marina nemica. I MAS iniziarono a distinguersi già durante la Grande Guerra, infliggendo pesanti perdite alla flotta austro-ungarica.

Nel Secondo conflitto mondiale, le loro operazioni si ampliarono ulteriormente grazie al supporto dei reparti d’incursori e, con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, anche di unità di fanteria di marina.

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
Coppia di MAS in esercitazione (1918) – Copyright Marina Militare Italiana

Le origini

I primi MAS furono sviluppati durante la fase iniziale della Prima Guerra Mondiale, a partire dal progetto elaborato dal cantiere veneziano SVAN (Società Veneziana Automobili Navali), che costruì i prototipi MAS 1 e MAS 2 nel giugno 1915.

La Regia Marina aveva già manifestato interesse per i motoscafi armati fin dal 1906, ma solo con lo scoppio della guerra si passò dai progetti alla produzione in serie. Questi mezzi, concepiti per attacchi rapidi e per sfruttare l’effetto sorpresa, venivano impiegati per lanciare siluri contro le navi nemiche.

La Prima Guerra Mondiale e i successi dei MAS

Con l’avvio della Prima guerra mondiale, i MAS furono impiegati in operazioni di sorveglianza e attacco, dimostrando la loro efficacia in missioni contro le forze austro-ungariche. Questi motoscafi, piccoli, maneggevoli e dotati di un’elevata velocità, rappresentavano un cambiamento strategico per la Regia Marina, che puntava più sulla quantità e l’agilità rispetto alla potenza delle grandi navi da battaglia.

Gli assalti condotti dai MAS furono coronati da successi spettacolari, come le missioni di Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini, che nel 1917 con i MAS 9 (RIzzo) e Mas 13 (Ferrarini) affondarono la corazzata Wien al largo di Trieste, e nel 1918 distrusse la Santo Stefano, sempre della marina austro-ungarica.

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Frammento della prua della Wien recuperato dopo la Prima guerra mondiale e ora esposto al Museo storico navale di Venezia – Free Copyright Creative Commons Wikipedia

L’affondamento della Szent István e della Viribus Unitis

Il 10 giugno 1918 ebbe luogo la storica impresa di Premuda, in cui il Tenente Luigi Rizzo e il Guardiamarina Giuseppe Aonzo, a bordo dei MAS 15 e MAS 21, inflissero un colpo decisivo alla flotta austriaca.

In piena Prima Guerra Mondiale, i due MAS, agli ordini del capo sezione Luigi Rizzo e rispettivamente comandati da Armando Gori e Giuseppe Aonzo, partirono dal porto di Ancona e, con audacia e precisione, riuscirono a infiltrarsi tra le unità nemiche dirette al Canale d’Otranto.

All’alba, i MAS riuscirono a silurare e affondare la corazzata austriaca SMS Szent István (Santo Stefano), segnando un successo decisivo per la Regia Marina Italiana. Questo atto eroico è ancora oggi celebrato ogni 10 giugno con la Festa della Marina.

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La corazzata austro-ungarica Szent István mentre affonda al largo dell’isola di Premuda – Free Copyright Creative Commons Wikipedia

Il 1º novembre 1918, durante l’impresa di Pola, il Maggiore Raffaele Rossetti e il Tenente medico Raffaele Paolucci, a bordo di una “mignatta”, riuscirono ad affondare la corazzata SMS Viribus Unitis, fiore all’occhiello della Marina austro-ungarica.

La sera del 31 ottobre, due MAS scortati da altrettante torpediniere salparono da Venezia, senza alcun atto ufficiale che ratificasse l’operazione da parte italiana. Giunti nelle acque istriane, le torpediniere si ritirarono, lasciando che uno dei MAS rimorchiasse la mignatta, una torpedine semovente, fino a poche centinaia di metri dalla diga foranea del porto di Pola.

Alle 22:18, Rossetti e Paolucci puntarono verso il porto con la loro mignatta, mentre il MAS si allontanava per tornare al punto di recupero. L’avvicinamento si rivelò estremamente rischioso: i due ufficiali trascinarono la mignatta a motore spento, superarono una sbarramento esterno e tre ordini di reti, riuscendo a eludere la vigilanza austriaca. Passarono inosservati accanto a sentinelle, imbarcazioni di ronda e persino a un sommergibile in rada.

Alle 3:00 del mattino si trovarono vicino alle navi ancorate e solo alle 4:45, dopo oltre sei ore in acqua, raggiunsero la Viribus Unitis. Rossetti si staccò dalla mignatta e fissò allo scafo una carica esplosiva da 200 kg, programmata per esplodere alle 6:30. Scoperti da un proiettore, furono catturati: Paolucci riuscì comunque ad attivare una seconda carica, mentre Rossetti fece affondare la mignatta nei pressi del piroscafo Wien.

Portati a bordo come prigionieri, i due italiani appresero che nella notte la flotta di Pola era stata ceduta agli jugoslavi e che la nave non batteva più bandiera austriaca. Alle 6:00, avvertirono il capitano Vuković del pericolo imminente, che ordinò l’evacuazione. Tuttavia, non vedendo esplosioni, l’equipaggio tornò a bordo. Alle 6:44, la carica detonò: la Viribus Unitis si inclinò e affondò rapidamente, causando numerose vittime e la morte dello stesso Vuković, colpito da un albero della stessa nave mentre tentava di salvarsi a nuoto.

La Viribus Unitis, costruita nel 1912 a Trieste, era la prima nave da battaglia della classe Tegetthoff e simboleggiava la potenza e l’orgoglio della Marina austro-ungarica. Il suo affondamento rappresentò non solo un colpo devastante per la flotta nemica, ma anche una delle più leggendarie imprese degli incursori italiani.

Fu messa a tacere per sempre dall’eroismo di due uomini: Raffaele Rossetti e Raffaele Paolucci.

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
La Viribus Unitis, costruita nel 1912 a Trieste, era il fiore all’occhiello della Marina Austriaca – Free Copyright Creative Commons Wikipedia

D’Annunzio e il supporto agli Incursori

Tra i più grandi sostenitori dei MAS c’era Gabriele D’Annunzio, che fu a bordo dei MAS durante la celebre Beffa di Buccari nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918 e che contribuì a diffondere il motto “Memento Audere Semper” (Ricordati di osare sempre). Grazie anche al supporto di D’Annunzio, l’impiego dei MAS divenne un simbolo del coraggio e dell’audacia delle forze italiane, guadagnandosi la stima della nazione.

Al termine del conflitto, la Regia Marina disponeva di 419 esemplari di MAS, segno del successo di questa strategia di combattimento basata sulla sorpresa e sull’agilità.

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I protagonisti della Beffa di Buccari: da sinistra Luigi Rizzo, Gabriele D’Annunzio e Costanzo Ciano, ritratti dopo la celebre missione – Free Copyright Creative Commons Wikipedia

CONTINUA …

NON PERDERTI I PROSSIMI ARTICOLI SULLA STORIA DELLE FORZE SPECIALI ITALIANE:

Parte II: Tra le due guerre e la Seconda Guerra Mondiale (25 settembre)

Parte III: Dal dopoguerra nella Guerra Fredda ad oggi (2 ottobre)

Dagli Arditi alle Forze Speciali moderne, una storia tutta italiana – Parte I: Le origini e la prima guerra mondiale (1914-1918)
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Al secolo Alessandro Generotti, C.le magg. Paracadutista in congedo. Brevetto Paracadutista Militare nº 192806. 186º RGT Par. Folgore/5º BTG. Par. El Alamein/XIII Cp. Par. Condor. Fondatore e amministratore del sito web BRIGATAFOLGORE.NET e DIFESANEWS.COM. Blogger e informatico di professione

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