Non si vedeva un simile dispiegamento navale statunitense nel Mar dei Caraibi dal dicembre 1989, quando l’allora presidente George H. W. Bush ordinò l’invasione di Panama e la cattura del generale Manuel Noriega. Oggi, a trentasei anni di distanza, lo scenario si ripete in forma nuova e più complessa: il regime di Nicolás Maduro è ormai nel mirino diretto di Washington, accusato non solo di autoritarismo ma soprattutto di guidare un cartello della droga internazionale – il famigerato Cartel de los Soles – che secondo la giustizia americana rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Secondo fonti militari confermate dalle agenzie Reuters e Associated Press, gli Stati Uniti hanno schierato nel sud dei Caraibi sette navi da guerra: tre cacciatorpediniere della classe Arleigh Burke (USS Gravely, USS Jason Dunham e USS Sampson), un incrociatore, un sottomarino d’attacco nucleare e tre navi anfibie (USS Iwo Jima, USS San Antonio e USS Fort Lauderdale). A bordo, circa 4.500 militari, inclusi 2.200 marines pronti a operazioni di sbarco o di intervento rapido.
Al dispositivo navale si aggiungono gli aerei da pattugliamento P-8 Poseidon, impiegati in missioni di sorveglianza e intelligence nelle acque internazionali a ridosso della Zona Economica Esclusiva venezuelana, e gli AV-8B Harrier II del Corpo dei Marines, imbarcati sulla USS Iwo Jima, capaci di decollo corto e atterraggio verticale, che garantiscono superiorità aerea tattica e capacità di attacco di precisione dal mare. La stessa presenza degli Harrier è stata confermata da un video pubblicato dal Dipartimento della Difesa su X, nel quale si vedono i velivoli impegnati in esercitazioni di decollo e atterraggio sul ponte della Iwo Jima mentre navigava nell’Atlantico (27 agosto 2025).
Un dispiegamento di tale portata non si vedeva da decenni e segna un salto qualitativo: da operazioni di routine della Guardia Costiera si passa a una vera proiezione di potenza navale, con capacità offensive aeree, anfibie e missilistiche che ricordano più un preludio a un’operazione di guerra che a una semplice missione antidroga.
#MarineCorsp AV-8B Harriers with the @22nd_MEU perform flight deck landing drills from the Wasp-class amphibious assault ship USS Iwo Jima (LHD 7) while underway in the Atlantic Ocean.#Marines #SemperFi #aviation pic.twitter.com/iL8ctF5Bm1
— U.S. Marines (@USMC) August 27, 2025
Per la Casa Bianca l’operazione ha un obiettivo preciso: colpire le reti del narcotraffico latinoamericano che utilizzano i Caraibi come corridoio per portare cocaina e fentanyl negli Stati Uniti ed Europa.
Il presidente Donald Trump ha affermato che è disposto a usare «ogni strumento del potere americano per fermare il flusso di droga e assicurare i responsabili alla giustizia». Tra questi responsabili, nelle parole della portavoce Karoline Leavitt, spicca proprio Nicolás Maduro, definito «un fuggitivo, capo di un cartello del narcotraffico, accusato in tribunali federali di traffico di droga verso il nostro Paese».
Non è un caso che a febbraio 2025 Washington abbia inserito non solo i cartelli messicani (Sinaloa, CJNG, del Golfo, del Noreste, Nueva Familia Michoacana) ma anche due gruppi sudamericani – il Tren de Aragua e il Cartel de los Soles – nella lista delle organizzazioni terroristiche globali.
Today, @TheJusticeDept and @StateDept are announcing a $50 MILLION REWARD for information leading to the arrest of Nicolás Maduro. pic.twitter.com/D8LNqjS9yk
— Attorney General Pamela Bondi (@AGPamBondi) August 7, 2025
Il cosiddetto Cartel de los Soles (“Cartello dei soli”) prende il nome dai distintivi militari a forma di sole portati sulle spalline dai generali e ufficiali superiori delle Forze Armate venezuelane. L’espressione emerse per la prima volta negli anni Novanta, quando investigatori e media denunciarono il coinvolgimento di alti gradi militari in operazioni di contrabbando di droga attraverso il territorio venezuelano. Nel tempo, il termine si è consolidato per indicare non un cartello tradizionale come quelli messicani, ma piuttosto una rete criminale interna allo Stato, composta da ufficiali dell’esercito, della Guardia Nazionale Bolivariana e da esponenti politici di primo piano.
Secondo procure statunitensi e testimonianze di disertori, il Cartel de los Soles si sarebbe evoluto da episodi di corruzione isolata a un vero apparato parallelo, in grado di gestire rotte di narcotraffico verso i Caraibi, l’America Centrale e l’Europa. Il funzionamento si basa sulla protezione militare dei carichi di cocaina, spesso prodotti dalle FARC colombiane, che attraversano il confine con il Venezuela. In cambio, i vertici del cartello ottengono una percentuale sui profitti, armi e appoggi politici.
Negli anni 2000 e 2010, con l’ascesa di Hugo Chávez e poi di Nicolás Maduro, il Cartel de los Soles avrebbe assunto un ruolo centrale non solo nell’economia criminale, ma anche nella sopravvivenza politica del regime, garantendo risorse finanziarie a un apparato statale sempre più isolato a livello internazionale. Per questo Washington lo ha classificato come organizzazione narcoterroristica internazionale, ritenendo Maduro il suo capo politico e Diosdado Cabello il principale coordinatore operativo.
Il governo venezuelano nega l’esistenza stessa del cartello, definendolo un’invenzione propagandistica di Washington. Ma la designazione del 25 luglio 2025 come organizzazione terroristica internazionale da parte del Dipartimento del Tesoro – a cui si sono uniti Ecuador, Paraguay e Argentina – ha consacrato a livello globale l’immagine del Cartel de los Soles come narco-Stato istituzionalizzato.

L’aspetto più clamoroso della nuova fase è l’aumento della taglia su Nicolás Maduro, portata nell’agosto 2025 a 50 milioni di dollari. Mai un leader in carica era stato oggetto di una ricompensa tanto alta: si tratta di una cifra doppia rispetto a quella offerta a suo tempo per Osama Bin Laden.
Il percorso mostra un’escalation costante della pressione statunitense: nel marzo 2020 il Dipartimento di Stato offrì una ricompensa di 15 milioni di dollari per informazioni utili alla cattura di Maduro, accusato di narcoterrorismo. La somma venne innalzata a 25 milioni nel gennaio 2025, all’indomani del suo discusso insediamento per un terzo mandato. Infine, nell’agosto 2025, la taglia è stata raddoppiata a 50 milioni di dollari, una cifra record che lo pone di fatto al vertice della lista dei ricercati nella regione.
Accanto a lui, il “numero due” del regime, Diosdado Cabello, ha una taglia di 25 milioni di dollari, mentre sul ministro della Difesa Vladimir Padrino López pende una ricompensa di 15 milioni. Per Washington non si tratta più soltanto di un regime autoritario: Maduro e i suoi vertici militari vengono trattati al pari di narcotrafficanti internazionali e terroristi.

Il dispiegamento statunitense nel Caribe non ha lasciato indifferenti i governi della regione, producendo un vero mosaico di reazioni che riflette la profonda spaccatura geopolitica del continente. Da un lato vi sono i paesi che hanno scelto di schierarsi al fianco di Washington, interpretando l’operazione come uno strumento necessario per contenere il narcotraffico e un chiaro segnale di deterrenza verso Caracas. Dall’altro emergono posizioni più caute o critiche, preoccupate che la crescente pressione militare possa innescare una spirale di escalation con effetti destabilizzanti per tutta l’area.
La Francia ha annunciato il rafforzamento della propria presenza militare nei territori d’oltremare di Guadalupa e Martinica, ufficialmente per proteggere le rotte commerciali e contrastare il narcotraffico, ma in evidente coordinamento con la strategia statunitense.
Trinidad e Tobago ha espresso sostegno esplicito all’operazione americana e si è detta pronta a concedere le proprie acque territoriali per esercitazioni e manovre militari, soprattutto in funzione di difesa della Guyana, al centro delle rivendicazioni territoriali di Caracas.
Argentina, Ecuador e Paraguay hanno invece denunciato pubblicamente il ruolo del Cartel de los Soles come rete criminale transnazionale, sostenendo la necessità di un’azione internazionale coordinata per contrastarne le attività.
Di segno opposto le posizioni di Messico e Colombia. La presidente messicana Claudia Sheinbaum ha parlato apertamente di “minaccia alla stabilità regionale”, mentre il colombiano Gustavo Petro, pur criticando i rischi di escalation, ha ordinato la militarizzazione del Catatumbo con il dispiegamento di 25.000 soldati lungo la frontiera con il Venezuela.

Un elemento che ha sorpreso gli osservatori è stata la diversa reazione dei due principali alleati di Caracas. Mosca, storicamente partner militare e politico di Maduro, ha mantenuto un silenzio formale, evitando dichiarazioni ufficiali sul dispiegamento navale statunitense. Una scelta interpretata da alcuni analisti come il segnale di un possibile tacito “accordo di non intromissione” emerso dopo il recente vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin.
Diversa la posizione di Pechino, che attraverso il ministero degli Esteri ha condannato apertamente l’invio delle navi statunitensi nei Caraibi, riaffermando il proprio sostegno a Maduro e denunciando ogni ingerenza negli affari interni del Venezuela. Una presa di posizione che si inserisce però in un quadro complesso, mentre tra Washington e Pechino sono in corso delicate trattative commerciali sui dazi.
Queste circostanze lasciano ipotizzare un temporaneo allineamento di interessi: la Russia sceglie la prudenza, la Cina alza la voce ma senza azioni concrete, e nessuna delle due potenze appare intenzionata a ostacolare direttamente una mossa americana così rischiosa, forse nella prospettiva di ottenere concessioni in altri dossier strategici.

Di fronte alla crescente pressione internazionale, Nicolás Maduro ha reagito con la consueta retorica anti-imperialista: «Solo minacce bizzarre di un impero in declino. Nessun impero toccherà il sacro suolo del Venezuela». Un messaggio che riecheggia i toni di Hugo Chávez, trasformando ogni attacco esterno in un’occasione per rafforzare il fronte interno.
Sul piano militare, Maduro ha ordinato il dispiegamento di 15.000 soldati al confine con la Colombia, la mobilitazione della Milizia Bolivariana con 4,5 milioni di volontari e l’impiego di droni armati di produzione nazionale basati su tecnologia iraniana, presentati come simbolo di una sovranità tecnologica che in realtà dipende da alleanze con Teheran.
Parallelamente, sul fronte interno, il regime ha intensificato la repressione politica e sociale: arresti di sindacalisti indipendenti, persecuzione dei chavisti dissidenti e tentativi di sostituire i sindacati storici con nuovi “movimenti socialisti” interamente controllati dal potere. In questo contesto, il governo ha costruito un consenso forzato attorno all’idea che la minaccia degli Stati Uniti sia contro il Venezuela nel suo complesso, non solo contro Maduro o il chavismo.
La Asamblea Nacional, riunita in sessione straordinaria, ha approvato un documento a sostegno del presidente, respingendo qualsiasi ipotesi di intervento straniero. Nel dibattito, il presidente del parlamento, Jorge Rodríguez, ha assunto toni bellicosi: «Lo straniero che entra illegalmente in Venezuela non ne uscirà più, qui resterà. Non è una bravuconata: siamo obbligati a difendere il nostro territorio, il nostro cielo, il nostro mare». Ha poi accusato Washington di condurre mere operazioni di “guerra psicologica”, sostenendo che il Venezuela è oggi «il Paese con più vittorie nella lotta contro il narcotraffico», nonostante le accuse internazionali.
Anche Diosdado Cabello, “numero due” del regime, ha minimizzato le voci di un crollo imminente, ricordando in tv come il chavismo abbia resistito a 26 anni di attacchi: «Ogni volta hanno detto ‘è finita, domani cade’, e invece siamo ancora qui. Chi continua a credere ai proclami dell’opposizione merita una medaglia al merito per ingenuità».

Il paragone con Panama 1989 è inevitabile, ma le differenze con la situazione attuale del Venezuela sono enormi. Allora, gli Stati Uniti intervennero con l’Operazione Just Cause per rovesciare il generale Manuel Noriega, accusato di narcotraffico e riciclaggio. Washington disponeva già di una forte presenza militare nel Paese: a Panama si trovava infatti il Comando Sud (USSOUTHCOM) e numerose basi americane a presidio del Canale, che permisero un’operazione rapida e con logistica garantita.
Sul piano territoriale, Panama era un piccolo stato di appena 3 milioni di abitanti e una superficie di 75.000 km², relativamente facile da controllare. Il Venezuela di oggi conta quasi 28 milioni di abitanti e una superficie di oltre 916.000 km², dodici volte più grande: un teatro operativo vastissimo, con zone di giungla, montagne e frontiere porose, che renderebbe complessa qualsiasi occupazione o stabilizzazione.
Sul piano tecnologico, Noriega non disponeva di sistemi d’arma sofisticati, mentre Maduro può contare su batterie antiaeree S-300 di fabbricazione russa, droni armati di tecnologia iraniana, una fitta rete di milizie paramilitari e l’appoggio di attori esterni come Russia e Iran, interessati a mantenere un avamposto strategico nel continente americano.
Infine, il fattore dell’opinione pubblica globale segna una differenza decisiva. Nel 1989, con l’URSS in disfacimento e la Guerra Fredda ormai agli sgoccioli, il mondo accettò rapidamente i fatti compiuti dagli Stati Uniti, senza grandi resistenze internazionali. Oggi, invece, un’eventuale invasione del Venezuela scatenerebbe proteste planetarie, spaccature anche all’interno dell’Occidente e reazioni forti da parte di Mosca, Pechino e Teheran. In altre parole, ciò che nel 1989 apparve come una dimostrazione unilaterale di forza, nel 2025 rischierebbe di trasformarsi in un conflitto globale a geometria variabile.

Secondo analisti militari, le possibili strategie allo studio della Casa Bianca spaziano da misure indirette a scenari di conflitto aperto.
In sintesi, le opzioni militari spaziano da misure di pressione indiretta come il blocco navale e scenari di “decapitation strike” con forze speciali, fino all’ipotesi estrema di un’invasione vera e propria. Precedenti come Panama 1989, l’operazione Gedeón del 2020 e l’uso massiccio dei droni in Medio Oriente mostrano che gli Stati Uniti dispongono di un ventaglio di strumenti già collaudati. Ma applicarli al caso venezuelano significherebbe confrontarsi con un teatro regionale molto più complesso e con ripercussioni geopolitiche globali.
Un’opzione di precisione e a basso rischio per le vite dei militari americani sarebbe rappresentata dagli attacchi con droni armati – Reaper o Predator – capaci di eliminare leader considerati “high value targets” con operazioni chirurgiche. È una strategia ormai consolidata per gli Stati Uniti: impiegata a più riprese contro al-Qaeda e ISIS in Medio Oriente, ha portato all’uccisione di numerosi comandanti jihadisti in Siria, Iraq, Yemen e Afghanistan.
Applicata al Venezuela, significherebbe puntare direttamente contro Maduro o i suoi luogotenenti, come Diosdado Cabello e Vladimir Padrino López, replicando la stessa logica di “decapitation strike”: colpire la cupola del potere senza necessità di invasioni su larga scala.
È importante sottolineare, però, che finora gli Stati Uniti non hanno mai utilizzato droni per uccidere un capo di Stato in carica. I precedenti più noti riguardano figure di spicco non statali:
Un’azione contro Maduro rappresenterebbe quindi un salto di qualità senza precedenti, andando ben oltre le consuete operazioni antiterrorismo e collocandosi in uno scenario di forte rilevanza geopolitica internazionale.

Il Venezuela ha denunciato alle Nazioni Unite il dispiegamento statunitense, definendolo una violazione della Carta dell’ONU. L’ambasciatore Samuel Moncada ha parlato di «massiccia operazione di propaganda per giustificare un intervento militare contro un Paese sovrano».
Il segretario generale António Guterres è stato informato e segue con attenzione gli sviluppi, mentre da diverse capitali europee sono arrivate espressioni di preoccupazione per il rischio di escalation e per la stabilità regionale. Tuttavia, la Casa Bianca insiste che molte nazioni caraibiche e sudamericane – tra cui Trinidad e Tobago, Guyana e persino la Francia nei suoi territori d’oltremare – hanno espresso sostegno all’operazione, presentata ufficialmente come missione internazionale contro i cartelli della droga.
Il fronte europeo appare comunque diviso e prudente. Da un lato, alcuni governi hanno manifestato timori per le ripercussioni geopolitiche ed economiche di un conflitto ai confini del continente latinoamericano, sottolineando anche il rischio di nuove ondate migratorie verso l’Europa. Dall’altro, vi sono capitali che adottano una linea più dialogante e attendista, evitando però di criticare apertamente Washington e limitandosi a ribadire l’importanza della diplomazia multilaterale sotto l’egida delle Nazioni Unite.

La vera domanda è se Nicolás Maduro sarà il nuovo Manuel Noriega, travolto da un’operazione lampo, o se riuscirà a sopravvivere a questa ennesima prova. Per Washington, i giorni del chavismo sembrano segnati: la taglia record, la pressione militare e il fronte diplomatico costruito attorno alla Casa Bianca indicano un obiettivo chiaro, costringere Maduro a lasciare il potere.
Ma, a differenza di Panama, un’azione diretta contro il Venezuela non sarebbe né rapida né indolore. Potrebbe degenerare in un conflitto prolungato, con conseguenze devastanti per la regione e rischi di trascinamento su scala globale.
Il Congresso repubblicano non mostra incertezze. Come ha dichiarato il deputato repubblicano Carlos Gimenez: «I giorni di Maduro sono contati. Trump ha tutte le opzioni sul tavolo e le userà per garantire la sicurezza degli Stati Uniti».
Eppure, la realtà sul terreno è molto più complessa. Se Panama 1989 fu un colpo di mano rapido e netto, il Venezuela 2025 rischia di trasformarsi in un pantano geopolitico.
Fonti:

Il Venezuela nel mirino degli Stati Uniti: la crisi dei Caraibi può diventare la nuova Panama? Domande e risposte






